venerdì 4 febbraio 2011

Non chiamatele morti bianche

Settimana scorsa, in una sola giornata, ben cinque persone hanno perso la vita mentre stavano svolgendo il proprio lavoro. Salvatore Cordaro, Casimiro Arvonio, Carmelo Costanzo, Giovanni Tomasoni e Michele Capitani, questi i nomi dei lavoratori deceduti.
Salvatore Cordaro, 41 anni, operaio in una cava, è stato travolto da materiale roccioso a Nicolosi (Catania); Casimiro Arvonio, 30 anni, operaio, schiacciato da tre bobine metalliche a Nichelino (Torino); Carmelo Costanzo, 46 anni, travolto da una macchina utilizzata per la rimozione di binari e pietrisco sulla linea jonica delle Ferrovie dello Stato a Policoro (Matera); Giovanni Tomasoni, agricoltore bergamasco di 53 anni schiacciato da un albero che stava potando a Fara Gera d’Adda (Bergamo); Michele Capitani, 61 anni, precipitato da un’altezza di quattro metri nella tromba di un montacarichi nel Teatro Sociale di Pinerolo (Torino).
Da nord a sud, il lavoro ha ucciso. Quando fanno notizia, le morti sul lavoro vengono chiamate “morti bianche”, come se nessuna mano fosse responsabile dell’accaduto. Se cominciassimo invece a chiamarle come si faceva negli anni sessanta, utilizzando il termine “omicidi del lavoro”? Perchè di omicidi si tratta, i cui responsabili sono i sistemi di produzione delle economie industrializzate che si sono spinte sempre più verso una direzione incontrollabile, sia in termini di diritti che di salvaguardia delle vite dei lavoratori.
La sicurezza è stata comparata ad un “optional”, annoverata fra i costi aziendali non più sostenibili, del resto il Ministro Tremonti, citando la legge 626, ora sostituita dalla nuova legge 81 – quella che appunto regola la sicurezza dei lavoratori – ha dichiarato che è un lusso che non ci possiamo permettere.
In attesa che l’Inail pubblichi i dati ufficiali degli infortuni mortali sul lavoro, ci viene in aiuto l’Osservatorio indipendente di Bologna, il quale ha contato un totale di 1080 decessi nel 2010, più di tre al giorno. Notizie queste, che occupano semplicemente un piccolo articolo di cronaca di un giornale di provincia, senza che venga intrapresa una seria riflessione sia politica che normativa, destinata a comprendere ed attuare soluzioni che modifichino radicalmente il modo di pensare alla sicurezza, che non deve essere considerata come un costo, ma un valore aggiunto, un valore sociale.
Vi siete mai posti la seguente domanda: la ricchezza del Paese Italia, espressa dal Pil, quante vite umane costa? Vite di lavoratori che non tornano più a casa la sera dalle proprie famiglie, vite ingabbiate in un sistema che stritola irrimediabilmente una società costretta a dire sempre sì, vittima di una serie di distorsioni che hanno colpito il modo di pensare e fare politica, dove l’opinione pubblica è stata neutralizzata dal ciarpame propinato ogni giorno dai media.
Se si raffrontano i dati degli infortuni sul lavoro con i dati resi noti dal Ministero del Tesoro, riferiti all’anno 2009, si può capire molto bene che i lavoratori pagano a caro prezzo la ricchezza che producono. Con un Pil di 1521 miliardi di euro, quello appunto del 2009, il cui 32% – pari a circa 487 miliardi di euro – è da considerarsi profitto delle aziende, e ben 790.000 denunce di infortuni sul lavoro pervenute all’Inail, delle quali 1050 mortali, per ogni miliardo di profitto più di due lavoratori perdono la vita in incidenti.
Situazione questa non più tollerabile per un Paese civile, sempre se ancora lo siamo a tutti gli effetti, ecco perchè è necessario riscoprire e far riscoprire il tema lavoro come tema centrale di una rinnovata pratica politica, che sappia parlare, dialogare, con il proprio popolo, che sappia comprendere senza ipocrisia e preconcetti quello che di meglio la Sinistra può proporre ad un Paese allo sbando.
L’Italia è stanca di subire la legge del più forte, la legge del ricatto, la violenza che di giorno in giorno viene inferta all’intero assetto democratico, l’Italia è stanca di questa economia sempre in una condizione di esasperata competizione, l’Italia è stanca di essere una “italietta”, l’Italia è stanca di essere divorata dall’indifferenza.

Andrea Sironi

http://www.sinistraeliberta.eu/vetrina/non-chiamatele-morti-bianche

Lettera di una Madre per un Figlio che non c'e' piu'

DI GRAZIELLA MAROTA
liberazione.it


Andrea aveva 23 anni quando, il 20 giugno 2006, è rimasto con il cranio schiacciato da una macchina tampografica non a norma. Andrea voleva imparare a suonare la tromba, come se la chitarra da sola gli andasse stretta. Perché a quell'età la taglia dei desideri si allarga e non stai più nei tuoi panni dalla voglia di metterti alla prova, conoscere, guardare avanti. Da li a quattro giorni pure la metratura della sua vita sarebbe lievitata di colpo: dalla sua camera da ragazzo, in casa dei genitori,a un mini appartamento, acquistato dai suoi con un mutuo, a metà strada tra Porto Sant'Elpidio e la fabbrica Asoplast di Ortezzano, dove aveva trovato lavoro come precario per 900 euro al mese. 

Andrea voleva imparare a suonare la tromba, ma non ha fatto in tempo: una tromba che, rimasta là dov'era in 
camera sua, suona un silenzio assordante. E neppure Nella foto: Graziella e Andrea


l'appartamento è riuscito ad abitare: doveva entrare nella nuova casa sabato 24 giugno 2006, se ne è andato il 20 giugno di 4 anni fa. 

Oggi Andrea avrebbe 28 anni ma è morto in fabbrica alle sei e dieci dell'ultimo mattino di primavera. E suonerebbe ancora la chitarra con i Nervous Breakdwn e non darebbe il suo nome a una borsa di studio. Sarebbe la gioia di sua mamma Graziella e non la ragione della sua battaglia da neo cavaliere della Repubblica, per cultura sulla sicurezza. Una battaglia finita con una sconfitta dolorosa: nel nome del figlio e a nome dei tanti caduti sul lavoro, senza giustizia: Umbria-Oli, Molfetta, Thyssenkrupp, Mineo… 

Sono solo le stazioni più raccontate di una via Crucis quotidiana, che per un po' chiama a raccolta l'indignazione italiana, che poi guarda altrove. Le morti si fanno sentire, ma le sentenze molto meno, quando passano sotto silenzio anche per una sorta di disagio nell'accettarle e comunicarle. I responsabili di questa orrenda morte sono stati condannati a otto mesi di condizionale con la sospensione della pena, anche se il Procuratore generale del tribunale di Fermo aveva parlato «di un chiaro segnale perché questi reati vengano repressi con la massima severità». Andrea è stato ucciso per la seconda volta. La tragedia è finita nel dimenticatoio, con alcune frasi fatte e disfatte, tipo non deve più accadere, basta con queste stragi, lavoreremo per migliorare la sicurezza. Parole piene di buone intenzioni, che lo spillo della smemoratezza buca in un momento. Parole al vento! Alla fine anche Andrea si è perso tra i morti da stabilimento e da cantiere: martiri del lavoro che fanno notizia, il tempo di commuovere, che non promuovono ronde per la sicurezza, spesso rimossi pure nei processi. Tragedie quotidianamente dimenticate da un Paese ignavo e incurante. 

La tromba silente di Andrea a suonare la sua ritirata. Questo è quanto accade a tutti i morti sul lavoro; di loro restano solo dolore e angoscia dei familiari ma giustamente questo non fa notizia: una mamma che piange tutti i giorni, che guarda sempre la porta di casa aspettando che il suo Andrea rientri perché spera che tutta la sofferenza che sta vivendo sia solo un brutto sogno... Ma tutto ciò non importa a nessuno! 

Questa è la tragica realtà, di chi rimane e si rende conto di essere emarginato e dimenticato da tutti. Forse ciò che gli altri non conoscono è la realtà del "dopo" di queste tragedie… La vita per i familiari viene stravolta dal dolore e dalla mancanza della persona cara, ti ritrovi a lottare giorno per giorno per sopravvivere e se sei forte riesci in qualche modo a risollevare la testa da quel baratro di depressione in cui sei caduta, altrimenti sprofondi sempre di più! Ti accorgi che sei lasciato solo a te stesso… manca il sostegno psicologico, sono assenti tutte le istituzioni e nessuno è disposto ad ascoltare il tuo dolore perché il dolore fa paura a tutti! Speri nella giustizia ma questa si prende beffa di te, perché otto mesi e sospensione della pena per chi ha ucciso tuo figlio mi sembra una vergogna per un paese che si definisce civile… Vogliamo parlare dell'Inail, questo ente che ogni anno incassa milioni di euro?

Ebbene la morte di Andrea è stata calcolata 1.600 euro e cioè rimborso spese funerarie, allora mi chiedo ma la vita di mio figlio che è stato ucciso a soli 23 anni, per la società non valeva nulla? Eppure io quel figlio l'ho partorito, l'ho amato, curato e protetto per 23 anni, era il mio orgoglio e la mia felicità, e quindi tutto diventa assurdo e inaccettabile! Nemmeno l'assicurazione vuole pagare il risarcimento e a distanza di 4 anni e mezzo dovrò subire ancora violenze psicologiche tornando di nuovo in tribunale e ripercorrere ancora una volta questa tragedia… descrivere come è morto Andrea, come lo hanno trovato i colleghi di lavoro, come ho vissuto dopo e come continuo a vivere oggi… Credetemi una pressione che non riesco a sopportare più. Per terminare, anche l'amministrazione comunale di Porto Sant'Elpidio si rifiuta di dare una definitiva sepoltura al mio angelo! Allora mi chiedo e lo chiedo a voi che state ascoltando questa lettera: la vita di un operaio vale così poco? E' un essere umano come tutti e se per i soldati morti in "missione di pace" si fanno funerali di Stato, per i 1.300 operai che muoiono ogni anno per la mancanza di sicurezza, cosa viene fatto? Nulla, perché non sappiamo nemmeno nome e cognome… sono solo numeri che fanno parte di una statistica. 

Termino questa lettera con un appello disperato: fermiamo questa strage che serve solo a far arricchire gli imprenditori e a distruggere le famiglie! Ogni essere umano ha diritto alla propria vita e non si può perderla per 900 euro al mese!

Graziella Marota - mamma di Andrea Gagliardoni
Fonte: www.liberazione.it
1.02.2011

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